venerdì 26 novembre 2010

Una notte di un’estate calda in una sola frase a Milano negli anni settanta, un ragazzo.


Se c’è un lusso a non aver fratelli è una stanza tutta per sé, che poi era il mondo avventuroso oltre le quattro mura sempre pronto ad accoglierlo appena entrato per la porta laccata bianca su cui era appeso l’orso di pezza, come impiccato, ma vigile guardiano delle sue cose, confidente anche, talvolta supervisore dallo sguardo di plastica luccicante che si intuiva anche al buio della notte di poco rischiarata dalle luci della strada che si affacciavano in quell’estate calda che costringeva a lasciare aperti i vetri per far entrare un po’ di fresco accompagnato da quei rumori strani che proponevano le strade attorno con voci irruenti o discrete ad interrompere e accompagnare i sogni, sterzandone il corso, agitandoli, fornendo argomenti per scene di disarmante semplicità o storie surreali, come i filmeschi scontri di indiani rapidi a cavallo lungo luminose distese di polvere secca fra montagne di pietra rossa al tramonto e sparuti gruppi di case di legno solcate da strade di terra, qualche mucca, il saloon con i battenti che ancora si muovono cigolando come il tram di fuori, dentro il locale si intuiscono molte persone che ballano al suono della musica del bar all’angolo, un pianista, varie donnine dagli abiti gonfi e fruscianti, ai tavoli i giocatori di poker, avventori al bancone bevono il liquido ambrato che uno sporco sole rosso forma dentro il vetro grezzo e opaco, pulito velocemente con il solito straccio che l’uomo dietro il bancone tiene appoggiato sull’avambraccio e che usa anche per scacciare le mosche e per asciugarsi il sudore dal collo perché è proprio un’estate calda, comunque caldo che sia o meno, senza decisione ma nemmeno paura, con un balzo a piè pari atterra lo straniero sopra gli scalini legnosi e consumati fra la strada e i battenti ora immobili e posa le mani sopra di questi per spingerli ed entrare accompagnato dalla luce orizzontale del sole che sempre di più muore, una volta dentro indugia per farsi vedere, avanza lento e deciso due passi dopo due passi ritmati dagli stivali dal tacco pesante lungo le assi un poco imbarcate e scricchiolanti che portano al banco in fondo fra i tavoli dove i pistoleros seduti fanno silenzio e lo guardano, anche quelli di spalle girano la testa per vedere chi è colui che da quelle parti forse non ha messo mai piede, ma la cui faccia tutti hanno vista appesa nell’ufficio dello sceriffo con sotto una cifra dai tanti zeri, ed i passi da due si fanno quattro per diventare cinque e poi fermarsi perché il banco è a portata di gomiti, si toglie dalla testa il cappello dalla larga tesa, lo appoggia rovescio per fargli prendere aria ed asciugarne i bordi scuri intrisi di sudore, il tutto sempre in un silenzio irreale interrotto dal solo cigolio dei battenti che continuano ad oscillare ogni tanto al suono del nuovo tram che viene da fuori attraverso la finestra aperta: “il solito”, come il solito se mai era stato lì dentro? Ma è la frase giusta da dire in un posto come questo ed il barista, che deve averne viste lui, non si scompiglia e piglia scegliendolo con cura un bicchiere ancora bagnato con la testa all’ingiù fra gli altri bicchieri tutti uguali, lo asciuga col solito straccio formando più aloni che altro e lo pone sotto lo sguardo di lui che punta verso il basso perché si può permettere di badare a se stesso senza paura di chiunque possa mai stare lì dentro, dalla bottiglia ambrata, quasi vuota, tutto il liquido si ritrova in quel bicchiere: “non è giornata per bere quest’alcol dal sapore di piscio, aprine una nuova, questo ti può convincere” e tiene fra l’indice ed il medio una moneta comparsa dal nulla, magico prestigiatore, e con un guizzo delle dita il disco di metallo sobbalza, cade sul bancone e rotea, prima forte e poi con l’andatura di un ubriaco perso, per fermarsi come per miracolo in piedi, e il silenzio, sembra impossibile, diventa ancora più forte perché la moneta così ferma pare abbia bloccato anche il tempo, ma è solo un attimo e questa scompare fra le mani del barista che già ha preso una bottiglia nuova per aprirla con una dimestichezza allenata e mentre versa un altro bicchiere si spande l’odore di quel liquido forte, uso a starsene chiuso e libero ora di andarsene cavalcando l’aria pesante e rapito di un poco dalle narici del forestiero che prende il bicchiere con entrambe le mani e butta giù tutto in un solo gesto come fosse una scodella di latte la mattina quando mamma ha preparato la colazione, biscotti e marmellata, poi si gira e poggia i gomiti all’indietro sul bancone per guardare dritto in viso l’uomo che è venuto a trovare quel pomeriggio sul tardi, ma il sole finalmente s’è andato a nascondersi dietro la collina e tutto diventa scuro rischiarato da qualche semplice lume già acceso lungo le pareti e su qualche tavolo senza metodo, dall’altro lato della sala si alza come chiamato un tale che solo ora entra in scena, fa scivolare indietro la sedia con il rumore di un portone che si chiude qualche palazzo più in là, tiene le mani poggiate su due pistole luccicanti con il calcio in madreperla lungo la cintura grossa e pesante circondata da pallottole appese che formano una corona ad indicare che lui è il re di quella terra desolata e sanzadio, nessuna mossa dallo straniero: “Versane altri due”, ma del barista, prestigiatore anche lui, non c’è più traccia e sono spariti tutti salvo quei due, comprese le ballerine che comunque da un pezzo non ballano più, così il pianista non fa più musica perché il bar all’angolo ha chiuso, allora lo straniero prende due bicchieri e la bottiglia e muove lento altri due passi verso il re, questi s’avvicina pure lui, solo un tavolo li separa, si siedono entrambi, la bottiglia viene posata in mezzo e i due bicchieri a portata di mano e riempiti fino all’orlo e oltre senza grazia con un solo movimento da uno all’altro formando fra questi una scia scura di alcol lungo il tavolo abituato a bere pure lui, c’è un mazzo di carte, lo straniero lo prende e mescola, il re allenta la presa alle pistole, poi prende il suo bicchiere attento a non farlo sgocciolare che se sporca non vuole trovarsi a pulire, perché chi sporca pulisce, la mamma lo dice sempre e lo straniero divide il mazzo esattamente a metà ed una di queste la offre all’altro perché inizi la più importante partita di rubamazzo che il west abbia mai visto neppure al cinema, una partita che dura un’eternità, con vicende alterne, mosse dal destino delle carte ignote, gocce di sudore scivolano lungo la fronte ed il collo di entrambi e pure sul cuscino, ma l’attenzione non s’interrompe mai perché il gioco è avvincente, lo straniero, il re e l’orso di pezza fanno fatica a seguire veloci le carte che si voltano al centro e vengono prese dall’uno o dall’altro per essere messe sotto, lo straniero, il suo mazzo è numeroso come gli ultimi sparuti indiani che si incontrano ancora nella valle o come i soldatini ancora integri nascosti sotto il letto, mente quello del re ricorda le mandrie di bufali che migrano numerose come i tifosi che vanno allo stadio la domenica che quest’anno forse vinciamo lo scudetto, ma imprevista la fortuna gira e carta dopo carta allo straniero spunta il sorriso di chi sa di vincere perché le giornate al termine del campionato sono poche e molti i punti di distacco, così la partita si chiude, il re si alza sconfitto, prende bicchieri e bottiglia andando al banco per riporli, qui trova lo straccio, ripercorre i suoi passi, pulisce il tavolo così mamma non si arrabbia, poi s’avvia fuori: “anche questa volta non ti metto dentro, ma chissà , forse fra un anno vinco io” cigolano di nuovo i battenti, è l’ultimo tram della notte ormai giorno, come il giorno è arrivato nella valle, il re si ritrova il solito straccio con cui lustra la stella al petto luccicante al nuovo sole di quell’estate calda.

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martedì 17 febbraio 2009

ID di una nidiata interdetta


In marcia senza meta, come soldati pronti alla guerra, eravamo in molti, armati di domande e poche, vaghe risposte, capendo che una soluzione era ignorare.
Le generazioni capitate prima possiedono una loro guerra di morte e resurrezione dell’uomo già ragazzo, una guerra assente ha segnato la nostra,
la guerra che non ci ha svezzati per lasciarci cuccioli cresciuti, reclute inermi di una generazione interdetta incapace di sentire la propria voce al di sopra dello sferragliare delle cose.
Dediti a coltivare piccole battaglie interiori, reduci di una guerra mai stata eppure sempre presente, ignoriamo la paura di morire vivendo la paura di vivere.
Ora stiamo svegli con vene, come piccole spille, a graffiare le pupille fisse su cose immobili dopo aver inseguito ad occhi chiusi le fragili stelle nel dentro delle palpebre. E tutto intorno rumore e silenzio complottano a perderci i pensieri in labirinti di dritti corridoi che conducono a porte disegnate sul muro.
Oblio e noia, rabbia e gioia al di sotto degli argini perché quelli che dovevano frantumare il mondo ora incassano i trenta denari rubati al nostro futuro.

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domenica 11 gennaio 2009

We are ready to "D Y E"!

DYE è il nuovo libro di Massimiliano Moscarda, un apprendista, anzi tra i primi apprendisti scrittori di questo blog.
Per chi già non l'avesse già acquistato e letto, ecco che cosa vi siete persi e come potete rimediare:

DYE è il secondo di una serie di romanzi gialli che hanno come protagonista Claire Handel, una giornalista londinese dotata di un'umanità e di un acume investigativo che vi conquisteranno.
Massi presenta così il suo romanzo:

"A distanza di due anni dai terribili episodi di morte in cui si è trovata coinvolta, la giornalista Claire Handel sta tentando di vivere la sua nuova vita a Londra. Ma in seguito ad una lettera ricevuta misteriosamente dalla clinica psichiatrica in cui è rinchiusa la pericolosa criminale Daisy Dogg, strani eventi, al limite del paranormale, iniziano a tormentare Claire. E’ presto chiaro che esiste un collegamento tra ciò che le sta accadendo e il caso di Katie Johansson, una ragazza americana il cui cadavere, privo degli arti, è stato trovato pochi mesi prima dentro a un cassonetto, in un quartiere residenziale di Londra. Contattata anche dall’ispettore Curry della polizia londinese, Claire capisce che l’assassino di Katie, che marchia in fronte le sue vittime con un simbolo sconosciuto e si firma DYE, è entrato in qualche modo in contatto con lei e con la clinica psichiatrica. Starà a Claire e a Curry tentare di risolvere il rompicapo in cui sembrano coinvolti Mary Roses, figliastra di Daisy, il dottor Ryan Ellis, primario della clinica psichiatrica, l’ambigua infermiera Hillary World e la bizzarra famiglia Maryland, che custodisce un terribile segreto del suo passato. Sullo sfondo di una Londra ricoperta dalla neve, le misteriose coincidenze risucchiano Claire, facendola precipitare in un vortice e in una trappola sapientemente orchestrata. Costretti e bloccati dalla neve nell’ospedale psichiatrico, i protagonisti dovranno fronteggiarsi in una notte molto lunga che porterà altre morti orribili. Claire scoprirà che DYE non è un nome, ma un acronimo. E dietro quelle tre lettere si cela una mente malata e un piano folle, che costerà la vita ad altri innocenti."

Su Facebook esiste un gruppo dove si possono avere tutte le news riguardanti DYE e la sua avventura editoriale: ARE U READY TO “D Y E”?

Ed ecco il link dove si può acquistare il romanzo: http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=78669


In bocca al lupo, Massi.

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giovedì 11 dicembre 2008

Al posto suo

PROLOGO

Oggi è nata Rebecca.
Sono così emozionato, estasiato, allibito, che ogni piccolo gesto di mia moglie e della bambina mi sembrano totalmente irreali. Mi guardo intorno ed è come se non fossi davvero io a vedere, come se quelli non fossero i miei occhi o le mie mani, le mie gambe. Mai provata una tale sensazione.
Adesso lei esiste, si è fatta carne ed ossa, la posso annusare, toccare, sentir piangere, guardarla in ogni lieve cambiamento che subirà quotidianamente. Non è più soltanto frutto della nostra immaginazione o quel gonfiore informe nella pancia di Cristina. Non è più quell’immagine inanimata che assemblavamo nella nostra mente con pezzi scelti a caso o deliberatamente. Adesso possiamo tenerla in braccio, accudirla, darle da mangiare, scegliere il meglio per lei. Possiamo amarla, insomma.
Anche Cristina, mia moglie, ha tanti progetti per la nostra bambina, proprio come me. Vogliamo il massimo, il meglio per lei; vogliamo che tutto sia perfetto, in modo che per Rebecca la vita diventi semplice, con meno dolore possibile, con meno frustrazioni possibile. Noi ci pensiamo a queste cose, non vogliamo lasciare niente di intentato, di casuale per lei. Le cattive influenze di questo mondo oggi sono infinite e noi vogliamo starci attenti, tenere la piccola in un ambiente protetto, sicuro, dove esistono soltanto cose belle ed accessibili con facilità.
Sarò un padre oculato io. Niente mi sfuggirà, ne sono sicuro, perché l’amore è proprio questo; ed è questo che io voglio per mia figlia.



TEMPO DOPO…..

E’ passato il primo mese. Siamo stanchi: Rebecca ha dormito poco e niente durante la notte o, comunque, si è sempre svegliata varie volte. Ma io e mia moglie siamo felici di fare sacrifici per lei, di essere stanchi al posto suo, di cantarle canzoni ogni volta che apre gli occhietti. Perché ogni volta che apre gli occhietti deve rendersi conto che i suoi genitori sono presenti, reali, e vivono per renderle tutto più semplice.
Ieri notte ci ha fatti preoccupare: si è svegliata ed ha cominciato a piangere nonostante noi fossimo lì come tutte le notti, di fronte a lei e accanto a lei. Cantavamo, la stringevamo, la cullavamo, ma lei non smetteva proprio di piangere. Non capisco. Noi cerchiamo di amarla e circondarla di affetto il più possibile, quindi non riesco veramente a capire per quale motivo ieri notte si sia comportata così.
Non è che ha la febbre? Oddio, magari ha la febbre!!!
Mi sono distratto. Ecco. Non sono stato un buon padre. Non sono stato accorto. Dovevo pulire una terza volta tutte le cose di casa, il passeggino, i vestiti. Questi microbi si annidano ovunque e io mi sono distratto. Non so quando, ma è successo.
Come portò rimediare questo errore?
Dovrei avere io la febbre al posto suo….

ANCORA DOPO….

Rebecca continua a crescere e noi non perdiamo un attimo per stare con lei. Cristina ha proprio smesso di lavorare, io ho ridotto il mio orario di lavoro (ho una tipografia in proprio con qualche dipendente) e appena stacco corro a casa dalla mia bambina adorata.
Mia moglie sta continuando ad allattarla al seno e di questo non posso che essere felice. Quindi si può dire che tutto sia perfetto.
Eppure la bambina piagnucola sempre più spesso. E’ agitata, sembra divincolarsi. Quindi questo mi fa pensare che dentro di lei qualcosa non vada.
La febbre non è. Allora cosa potrà essere?
Ultimamente la sto proteggendo ancora più del solito: sta cominciando a gattonare quindi la seguo dappertutto e le impedisco di farsi male, di sporcarsi, di avvicinarsi troppo ad altri bambini quando siamo ai giardinetti sotto casa.
Non voglio perdere di vista niente, non devo sbagliare.
Cerco anche di portarla sempre in luoghi dove l’aria sia il più pulita possibile: noi abitiamo in aperta campagna, non voglio far respirare a Rebecca l’aria di città, quindi abbiamo deciso di non portarcela. Eppure questo cielo sembra sempre più inquinato, maledetto.
A volte penso che se potessi respirerei al posto suo……

ANCORA PIU’ TEMPO DOPO……

Il pediatra, all’ultimo appuntamento, ci ha comunicato che è il momento di svezzare la bambina: cioè niente più latte dal seno materno, ma dovremmo introdurre pappe o cibo triturato.
Io non ho mai sopportato i pediatri: pensano di poter dare delle regole pre-confezionate, ma i bambini non sono tutti uguali. Chi può conoscere mia figlia meglio di me e mia moglie?

Avevo ragione: non era questo il momento di svezzare Rebecca.
Da quando le abbiamo introdotto questa nuova alimentazione ha cominciato ad avere dei piccoli disturbi di pancia, oltre al continuo piagnucolare.
Prima non era mai successo. Quindi adesso mi sembra di non capire più se sia colpa di qualche microbo o del cibo. Come posso controllare le cose in questo modo?
I bambini hanno bisogno di equilibrio, mia figlia soprattutto. Quindi perché apportarle dei cambiamenti? Mi sembrava, infatti, inutile e pericoloso. Adesso non posso più tornare indietro…

EPILOGO

E’ passato ancora del tempo e Rebecca continua ad essere inquieta. Anzi, lo è sempre di più. A volte sembra avere come degli attacchi d’isterismo. Ma certo non si può usare questa parola per una bambina così piccola.
Così ho deciso di lasciare in gestione la tipografia in modo da poter passare ogni attimo della mia giornata con lei, per non lasciarla mai, non perderla mai di vista. Questo non potrà farle che bene. E’ come se si sentisse completamente monitorata e quindi saprà che non correrà alcun rischio. E si calmerà.
Comunque noi siamo sempre più convinti che il cibo le faccia male. Abbiamo vagliato varie soluzioni, ma quella che ci è sembrata più congeniale è sostituirci a lei almeno in questo. Non potendo ammalarmi al posto suo o respirare al posto suo, ho valutato che almeno posso mangiare al posto suo. In questo modo le eviterò i dolori di pancia, le coliche, l’agitazione e la sofferenza. Sarò un buon padre così.
Abbiamo cominciato da qualche giorno e le cose sembrano andare un po’ meglio: Rebecca continua a piangere ma dopo che ho preso il cibo al posto suo si calma e, incredibilmente, si addormenta nel suo letto. E’ un po’ dimagrita, ma questo non può farle che bene, così non dovrà sottostare alla sofferenza delle diete da grande.
Voglio continuare proprio così, sono convinto che sia la strada giusta.
………………
“Cristina, vado io a svegliare Rebecca stamani…chissà perché non si è fatta sentire ancora, sta diventando una dormigliona!……Cristina…la bambina non si sveglia, non si muove più, perché? Che cosa le è successo? Non si muove più Cristina…non risponde più…che cosa può essere successo???”

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mercoledì 5 novembre 2008

II - Il Lungo Volo

I - II

Ora, dico io, un conto è se hai mangiato pesante la sera precedente - allora te lo meriti di fare brutti sogni e avere una notte agitata - un conto è avere un incubo così vivido e reale che te la fai addosso dalla fifa e ti pare che tutto stia accadendo veramente.
Apro gli occhi. Mi aspetto di trovarmi nella sicurezza del mio letto, della mia stanza. L’aereo, la vecchia, la siringa, il fagiano volante... nient’altro che un brutto sogno.
Mi guardo intorno con ansia. Purtroppo il mio timore è confermato: come mi aspettavo, sono sempre sull’aereo e al mio fianco la centenaria un po’ suonata mi guarda con estremo interesse.
“Una bella dormita, eh?”
Che cazzo sta succedendo?
“Siamo arrivati?”
“Noi no. Il viaggio è ancora lungo. Lui sì. E’ qui. Questione di pochi minuti.”
“Cosa?”
Mi agito nel mio posto e mi chiedo se è possibile che sia vittima di un’organizzazione di spie russe che mi ha sequestrato in volo perché vuole carpirmi il segreto dell’eterna giovinezza.
“Senta”, dico spazientito, “che cosa c’è che non va qui? Ha visto anche lei cosa mi ha fatto l’hostess?”
“Quello era necessario. Era per il suo bene. Alla prossima antifona alla comunione non sentirà praticamente niente.”
Sono talmente basito che non ho neppure più l’agitazione che mi porto dentro durante i viaggi in aereo. Ma poi questo volo quanto dura? Io stavo andando… dove stavo andando? Ho un po’ di confusione in testa, non ci capisco più niente.
“Scusi, ma dove siamo diretti?”
La signora anziana scoppia a ridere. E’ una risata grassa, di gusto. Pare che abbia fatto una battuta davvero divertente. Vedo che l’uomo d’affari vicino trattiene a stento le risate.
In quel momento succede di nuovo. L’aereo inizia a precipitare ancora una volta cadendo a picco. Ci stiamo schiantando verso terra alla velocità della luce, ma le persone intorno a me non battono ciglio e sorridono. Poi mi rendo conto che io stesso non sto reagendo minimamente. Mi sforzo di assumere un’aria preoccupata e provo anche ad aprire la bocca per urlare, ma sento che le labbra si distendono in un beato sorriso e una grande pace mi serpeggia in corpo. Devo ammettere che non sono mai stato meglio.
L’aereo si assesta e tutto sembra tornare normale.
“Gliel’avevo detto che ci vuole poco ad abituarsi. Le antifone alla comunione sono dei bei momenti, no?”
“Signora, di cosa sta parlando?”
La vecchia mi fa un cenno per farmi guardare fuori. Allungo la testa oltre di lei verso il finestrino e allora li vedo di nuovo. Saranno dieci o forse più. Circondano completamente le ali dell’aereo. Sono gli uccelli che ho visto prima di perdere i sensi. Hanno un corpo tozzo che pare un cilindro quasi perfetto. Le zampe sono quelle di un’anatra, ma la testa e il collo appartengono a un fagiano. E in più hanno delle ali enormi che sbattono tutti insieme come se dovessero essere sincronizzati al secondo per permettere all’aereo di volare.
“Che bestie sono?”
“Quelli sono gli idrofagiani.”
Questo è troppo. Mi tiro un pizzicotto come si fa nei film o nei cartoni animati per vedere se sto sognando. Ma non mi sveglio. Qualsiasi cosa stia vivendo, è reale.
Ho paura di chiedere ulteriori spiegazioni. Non ce n’è bisogno, perché improvvisamente la mia vicina di posto pare avere una gran voglia di chiacchierare.
“Sono i Suoi animaletti da compagnia. Non sono carini?”
“Suoi di chi?”
“Ma del Re delle Cadute.”
Ecco, ora ho la conferma che l’anziana signora è totalmente andata. Che cazzo sta dicendo?
E in quel momento succede. Di nuovo l’aereo sembra cadere nel vuoto. Io sorrido placido e aspetto che la situazione si stabilizzi nuovamente, ma stavolta accade qualcosa di nuovo e inaspettato.
Le luci dell’aereo si spengono, le persone intorno sembrano tranquille, e in realtà anche io sento come una sensazione di benessere. Poi la porta della cabina di comando si apre e Lui è lì, in tutto il suo orrore.
L’ho sempre immaginato come rappresentato nell’iconografia classica. E in effetti è proprio così: le corna taurine, gli zoccoli al posto dei piedi, le ali di pipistrello, il corpo completamente rosso e un vago di odore di zolfo che lo accompagna.
Lo chiamassero pure Re delle Cadute, ma io mi trovo davanti al Diavolo.




[continua...]

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mercoledì 1 ottobre 2008

I - Il Lungo Volo

I - II

“Desidera qualcosa da bere, signore?”
Guardo l’hostess che mi fissa sorridente e mi chiedo come le persone possano solo pensare di mangiare o bere qualcosa quando si trovano inscatolate a trentamila metri da terra in un aereo.
Faccio segno di no con la testa fissando l’assistente di volo e rimango ipnotizzato dall’arzigogolata acconciatura che è riuscita a farsi in testa per andare a fare il suo lavoro.
L’hostess passa oltre con il suo sorriso stampato in viso.
Sospiro e provo a riconcentrarmi sul libro che sto leggendo. Da quando l’aereo è decollato, circa un’ora fa, avrò letto trecento volte la stessa frase.
Non c’è niente da fare: volare mi terrorizza.
Mi volto alla mia destra dove siede un’anziana signora. Il viso è solcato da tante rughe e gli occhi azzurri risaltano in quel campo arato. Anche lei mi sorride e, riconoscendo nel mio sguardo il terrore autentico, dopo qualche secondo mi dice:
“Ha paura?”
Azzardo un mezzo sorriso:
“Diciamo che non sono esattamente sereno.”
L’aereo prende un vuoto d’aria, lo stomaco mi schizza in gola e con la mano tento di afferrare istintivamente un appiglio invisibile davanti a me.
La signora anziana mi prende inaspettatamente la mano.
“Stia tranquillo”, mi fa.
Io le sorrido grato e lei prosegue:
“Del resto se l’aereo cade, moriamo istantaneamente e non ci accorgiamo di niente.”
Le lascio la mano di scatto con il sorriso che mi muore in viso e rifletto che per lei è facile dirlo: io ho trent’anni, lei almeno cento.
Mi volto dalla parte opposta: ci sono una coppia e un signore distinto sulla cinquantina. Sembrano così beati e tranquilli e mi ritrovo a invidiarli, perché io non ho mai fatto un volo in aereo sereno in quel modo. Torno a chiedermi come si possa essere rilassati in quell’inferno volante.
Il signore distinto in giacca e cravatta si gira verso me, poi come ricordandosi improvvisamente qualcosa di importante si volta di scatto e tira giù lo scuro del finestrino.
E’ stato un attimo, ma ho notato qualcosa di strano. Non ho fatto in tempo a distinguere cosa fosse, ma fuori dall’aereo c’era qualcosa.
Torno a voltarmi verso destra, ma anche da quella parte lo scuro del finestrino è abbassato. Faccio un rapido controllo intorno a me, ma non c’è un solo finestrino aperto da cui possa vedere fuori.
Sto diventando paranoico o c’era davvero qualcosa di strano?
Volgo di nuovo lo sguardo verso la signora centenaria accanto a me e, indicandole con la testa il finestrino, le chiedo se possiamo tirare su lo scuro per guardare fuori.
La vecchia mi sorride placida e mi fa:
“Meglio di no. Non fa bene vedere dove siamo a chi ha paura di volare.”
Questa poi… saprò bene io cosa è meglio fare quando…
Non finisco il pensiero. Questa volta non è un piccolo vuoto d’aria. L’aereo perde quota rapidamente. Stringo fortissimo i braccioli della poltroncina e penso che stiamo precipitando e non mi resta altro che urlare come il resto dell’aereo.
E’ in quel momento che realizzo che, anche se stiamo cadendo a picco, nessuno sta emettendo un suono o un grido di terrore. Non so bene come, ma riesco a guardarmi intorno e rimango esterrefatto: non solo stanno tutti in religioso silenzio come se stessero vedendo un appassionante film al cinema, ma sui volti dei passeggeri è stampato un sorriso beato.
Quando mi riprendo dalla sorpresa, mi rendo conto che l’aereo non sta più precipitando e si è di nuovo stabilizzato perfettamente.
Per l’ennesima volta guardo l’anziana signora.
Se ne sta lì a osservarmi sorridente, come se non fosse successo niente.
“Ma…”, balbetto, “lei non ha avuto paura?”
“Di cosa?”, ribatte lei stupita.
Non so bene cosa risponderle. Dopo un attimo di silenzio, le dico:
“Il vuoto d’aria… quel che diavolo era… l’aereo stava cadendo a picco…”
“Oh, fa lei… a quello ci si abitua… ”
Non le rispondo e rimango in silenzio. Mi verrebbe da afferrarla per il bavero della giacca che indossa e urlarle contro che a volare io non mi abituerò mai. E poi poco fa l’aereo stava davvero precipitando.
“Anche per me era così all’inizio… vedrà che molto presto sorriderà anche lei.”
La guardo con un’espressione ebete in volto: ma di cosa sta parlando?
In quel momento mi accorgo che la hostess è lì accanto a me e… indovina un po’… ha il suo bel sorriso stampato in faccia.
Mi porge la mano e mi dice:
“Bene, tocca a lei.”
“Cosa?”
“E’ il suo turno”, dice l’assistente di volo un po’ spazientita, ma senza perdere il suo sorriso.
“Non capisco, io…”
Non termino la frase, sorpreso dalla siringa che mi ritrovo conficcata nel braccio. L’hostess doveva tenerla nascosta nella mano dietro la schiena.
L’anziana signora mi sorride e dice:
“Oh, non si preoccupi… è la prassi.”
Sento il siero che viene iniettato nella mia vena.
“Che cosa…”
Di nuovo non termino la frase. Giro la testa verso il signore distinto che sorridente mi fa un cenno con il capo e apre il finestrino giusto in tempo perché io possa realizzare cos’era quella cosa strana che avevo intravisto poco prima.
Perdo i sensi sentendo le labbra che si distendono in un sorriso.
Fuori dall’aereo quello strano animale, simile a un fagiano volante, continua a sbattere le ali ritmicamente come a dare propulsione all’apparecchio.




[continua...]

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domenica 14 settembre 2008

Monologo di un uomo in prigione

“Scricchiola. Produce un suono fastidioso. Lo so che è la seggiola, solo e soltanto la seggiola, eppure io sono sdraiato sul letto.

Devo traballare. Devo muovere queste gambe, così schifosamente magre.

Qui puliscono. E’ la mia stanza e la puliscono a fondo. Che balordi. Ingenui. Però io poi pulisco le loro stanze. Balordo anche io. Mi alzo presto e la notte fatico a dormire. Potrei scrivere. In effetti potrei scrivere, ma non ne sono capace. Merda. Non ci riesco. Se solo potessi parlarle invece di scriverle. Se solo potessimo fare l’amore io e lei. Ancora.

La sedia scricchiola. Se non mi muovo sono finito. Perché poi comincio a tremare. Quegli schifosi spasmi. Freddo. Se solo mi riuscisse far ridere come prima. Buffone. Acrobata della buffoneria. Lei solo a guardarmi rideva. Che diavolo avrà avuto la mia faccia? Forse era anche il mio odore che la faceva ridere. Sempre pulito e profumato. Una volta le ho anche regalato un deodorante. Così, perché mi andava. Non che lei puzzasse, anzi.

Se io non ho tutto subito mi sembra di impazzire. Pazzo. Fuori di testa. Perdo anche qualche capello, eppure mio padre non è calvo. Se solo potessi tornare indietro farei tutto e subito. Sposarla e avere dei figli. Avremmo litigato, certo.

Sono intelligente ma non mi applico. Voglio litigare. Ho bisogno di litigare. E’ la furia che mi rompe il cervello. Così non impazzisco. Così dei rumori e dei sentimenti non me ne frega niente per un po’. Io sono solo una furia. Le nocche. Le mani. Sono solo tagli e sbucciature. Eppure lei adorava le mie mani.

Mi alzo. Sto. La furia e gli spasmi sono un “non posso più tornare indietro”. Scaltro. Pronto a riprendere tutto ciò che ho rubato. Perché prima di tutto ho rubato me. Invece lei ha rubato il mio cuore. Me lo ha incatenato quel cuore. E’ che se batte, batte in modo strafottente. Io sono strafottente. Ma anche furbo. Un asso.

Sto. Non cammino, non mi alzo, altrimenti mi viene fuori tutta la strafottenza.

Vivere i giorni come dei lunghi giorni. O come istanti. Lei sarebbe il mio giorno più lungo, se solo ne fossi capace. Che botte mi darei. Anche alle gambe. Poi mi racconterei una storiella o una barzelletta per farmi passare il dolore. Storielle inventate di sana pianta. A volte mi sono inventato anche la mia vita. Che tipo! Che buffone! Non oso guardare gli altri e gli altri non osano guardare me.

Le sigarette. Le avrò messe da qualche parte. Due, tre pacchetti sparsi. Che buffone. Se solo l’avessi capito prima. Se solo non mi fosse mancata la quotidianità. Ora non sarei qui. Scricchiola. Si muove da sola. Vorrei la mia pistola. E la parrucca che usavo. Che intelligenza. Non mi beccavano mai, ragazzi.

Se avessi la pistola adesso me la metterei in bocca. Buffone. Per fare uno scherzo a qualcuno.

Fumo. Bevo. Ma non l’hanno portata l’acqua. Maledetti. Io faccio finta di sputare. Disidratato. Gli punterei la pistola a loro. Ingenui.

Dopo aver fumato vorrei stare con lei. Lei non mi ricorda neanche lontanamente mia madre. Neanche mio padre. Lei non è me. Sono solo io che vorrei essere lei, ma non posso. Lei non vorrebbe essere me. Se potessi toccherei quel suo seno tenero e piccolo. Se potessi la lascerei libera. Questa stanza puzza. Lavare, pulire, mangiare il grano con le mani, a morsi, senza cuocerlo. Devo fare quei lavori. Domani. Adesso è tardi, ma forse prima di spengere la luce scrivo.

E’ un rischio. Corro troppi rischi. E sono pericoloso. Perché? Merda. Quella sedia la romperei in mille pezzi. Ma guarda che braccia. Niente muscoli. Però ne ho date di botte a quei bastardi. Se solo qualcuno osava: botte! Cazzotti e pedate. Poi che sapore acre sulle labbra. Puzzo di sudore, di sangue raggrumato. Pestato. Non vedere quasi più niente, con gli occhi talmente appannati. Colavano. Nascevano grosse tumefazioni. Che buffone.

Però la facevo ridere. Potevo cambiare voce. E lei rideva da non crederci. Viso mio. Viso caro.

Potrei farmi la barba. Magari una doccia. Ma poi qualcuno potrebbe dirmi che sono bello. Lei me lo diceva e quanto mi arrabbiavo io. Odio sentirmi dire che sono bello. Contegno. Riservatezza. Sfiducia di tutto. Tanto tutto è merda. Lei no però. Lei vive tra gli alberi. Non cade mai, ma so che piange per me. Grida per me.

Adesso dormo. Tanto non sogno e allora posso dormire. Scriverò domani. E poi domani e domani. Perché tanto non so se uscirò. Se farò. Se sparerò.

Dormo.

La sedia non scricchiola più…”

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lunedì 7 luglio 2008

Suonano?



“Il mio uomo balla il tango. La sera quando per molti è l’ora di ritirarsi, c’è un locale, brutto da paura. E’ qui che fino a notte tarda vengo a vedere il mio uomo che balla. La strada buia, le case alle finestre qualche luce già si spegne, le vie quelle più strette e fatte di pietra, l’ultimo vicolo tiene nascosta l’entrata oltre una tenda lurida, qui dentro balla il mio uomo. Sa che ci sono ma sempre mi ignora, per lui è solo la musica, è solo le tavole che tiene sotto e batte coi tacchi. Mi tradisce ballando con le donne, quelle vere che con lui ballano, che fanno l’amore con lui, mentre tutti guardano, e anch’io.
Dentro c’è fumo tutto attorno e musica sempre, di giorno non sono mai entrata, la luce qui noni si muove bene. Fumo e musica, l’odore e il sapore del vino rosso, e il sudore del caldo della gente, e il cibo. E’ una cappa che fa l’atmosfera dove lui balla ed io guardo, lontana, quando mi tradisce, ma io ho qui con me un pugnale, ho con me un pugnale che nessuno vede.”



- Scendi, lo sai anche tu che questa sera non è fatta per dormire.
- A parole fai tutto facile, i fatti , quelli non li sai reggere.
- Questa sera faremo tutti i fatti che vuoi, ne avremo così tanti che potrai raccontarli per giorni, e solo i più importanti, perché non avresti il tempo per dirli tutti.
- Parole, come sempre.
- Ascolta, suonano il tango. E’ una musica forte ma lontana, la sento appena. Sono le voci di un paese dall’altra parte del mondo. I musicisti di lì, qui muoiono, di nostalgia ed il loro tango ne soffre e ci guadagna. Musica triste di chi vuole fuggire, ma anche tornare, di chi senza casa sa bene cos’è la casa.
- Di chi è senza futuro?
- Questa sera il loro futuro è solo l’applauso alla fine della musica, per ripagare il sudore mentre continuano un poco ancora a suonare le ultime note allo sbando, le migliori, intrise ancora della canzone appena finita.
- Sono solo note.
- Chi compone, chi suona, chi ascolta, le ultime note sono di tutti, soffiate nell’aria come bolle di sapone, si rompono subito, qualche goccia e via. Così si mescolano in un attimo preciso le gioie, il dolore, le valige di noia e di gioia di più persone distanti oceani, e dai destini tanto diversi, alcuni segnati.
- A me interessano solo le faccende di cuore.
- Ma anche di politica, e perché no, di libertà. Ognuno ha il suo modo di esprimerla e chi non l’ha, e chi deve conquistarsela, allora il tango assume significati ben profondi, quando dire le cose come stanno non si può o non si riesce.
Sangue e sudore melanconicamente finiscono in questi suoni che cessano solo quando mancano le forze, ma appena si riprendono, inizia un’altra canzone, un altro giro, tante storie in un unico discorso che tutto comprende.
- Da qui vedo dove suonano, intuisco anche i loro movimenti, ma non bene.
- Senti anche le parole? Cosa dicono, qual è la storia?
- Cantano spesso una canzone, ho chiesto in giro, se qualcuno sa, che mi traducesse, e finalmente un vecchio, sicuramente uno di loro, con parole qualcuna della mia e molte della sua lingua, mi ha spiegato il tango che si intitola:

Mi hombre es un tangero.


“Il mio uomo balla il tango. La sera quando per molti è l’ora di ritirarsi, c’è un locale, brutto da paura. ...”



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martedì 10 giugno 2008

L'eclissi del 1999

Si svegliò improvvisamente che non si era ancora fatta mattina. Una luce appena dorata penetrava dalle fessure socchiuse delle imposte mentre un vago senso di inquietudine si impadroniva lentamente di lui mano a mano che prendeva coscienza.

Che giorno era quello? E perché si sentiva così?

Strizzò gli occhi nel tentativo di distinguere nella fioca luce della stanza la data cerchiata in rosso che spiccava sulla pagina del calendario appeso alla parete di fronte.

11 agosto 1999.

Sì, non c'erano dubbi. Il giorno era quello ed era arrivato. Lo stava aspettando da settimane.
Ne sentiva l'afflato da quando giornali e TV avevano dato voce ad astronomi e scienziati e pagine e servizi erano state dedicate all'evento. E da allora aveva sentito nascere dentro di sé una sensazione di crescente e indefinibile angoscia.

Data funesta: alle 11 e 11 esatte di quell'11 agosto di fine millennio le orbite di sole, terra e luna si sarebbero allineate e quest'ultima, interponendosi tra i due corpi celesti, avrebbe proiettato un'ombra di morte sulla superficie del pianeta.

Già, di morte.

Gli sfuggì un sospiro profondo al pensiero degli oscuri presagi che il fenomeno portava inevitabilmente con sé. Un'aura di catastrofiche previsioni dal buio che precede la fine, la fine del mondo.

Pareva impossibile a credersi in una così bella giornata.
Si affacciò alla finestra.

In effetti era davvero una splendida giornata, il sole brillava sfolgorante in un cielo limpido e terso. Neppure l'ombra di un bianco fiocco spumoso ad intaccarne la superficie di cobalto perfetto. E il mondo pareva più vivo, la terra più animata del solito. Nulla che facesse presagire la fine.
Eppure…

Nel settimo mese dell'anno millenovecentonovantanove dal cielo verrà un grande re spaventoso a resuscitare il Re d'Angolmois prima che Marte regni felicemente", la quartina numero 72 della decima Centuria di Nostradamus parlava chiaro.

Oddio, chiaro… insomma parlava. E si lasciava interpretare. Eccome se si lasciava interpretare.

Il mese indicato come "settimo", infatti, sarebbe stato in realtà proprio quello di agosto dato che l'apocalittico frate preveggente avrebbe scritto quei versi in data antecedente il calendario Gregoriano e nel calendario giuliano usato in quel periodo, l'11 agosto corrisponde proprio all'attuale 29 luglio.

Non c'era da scherzare.
Non ci voleva certo un grosso sforzo di fantasia per capire che il riferimento era tutto per quell'eclissi di fine millennio. Era più immediato di altre volte in cui non era stato possibile ricollegare i versetti ai fatti se non dopo che questi si erano verificati. Ma poi tutto coincideva.

Inesorabilmente. Neppure una grinza.

E poi chi era quel re d'Angolmois?

"L'an mil neuf ans nonante neuf sept moins du ciel diendra vun grand Roy d'effrayeur…".

Il Signore dello spavento. Le parole gli rimbombavano nella testa amplificandosi e facendosi di volta in volta più cupe e minacciose.

Non c'era niente da fare. I versi del profeta non lasciavano spazio a nessuna più ottimistica interpretazione.

Nel momento stesso in cui il sole si fosse tinto di nero sarebbe stata la fine. Era scritto.
E come se ciò non bastasse gli astronomi avevano previsto proprio per questo stesso periodo l’allineamento della luna con i nove pianeti del sistema solare a formare una grande croce con la terra nel punto di intersezione e l'entrata di Marte nella costellazione dello Scorpione, suo domicilio diurno per il suo felice regnare.

Tutto concorreva a confermare quanto previsto da Nostradamus.

Anche Giovanni ne aveva parlato. Sì, Giovanni, l'Evangelista. Quello dell'Apocalisse.

E se lo aveva detto lui…

Narrava che all'apertura del sesto sigillo si sarebbe udito un gran terremoto, il sole si sarebbe offuscato tanto da apparire nero come un sacco di crine, la luna avrebbe preso il colore del sangue, le stelle sarebbero precipitate sulla terra come frutti acerbi di un fico scosso da un vento impetuoso, il cielo si sarebbe accartocciato come un rotolo che si riavvolge, monti e isole sarebbero scomparsi dai loro posti.

Roba da far tremare i polsi.

Si mise a camminare nervosamente avanti e indietro tentando di allentare la tensione che sentiva crescergli dentro.

*

Fu un attimo. Vide la massa dei ghiacci accumulata al Polo Sud scivolare verso l'equatore con travolgente rapidità e le forze della natura, perduto l'antico equilibrio, scatenare tutta la loro furia: i vulcani entrare in eruzione, onde altissime abbattersi sui continenti, uragani di incredibile potenza spazzare l'intero pianeta, centrali nucleari esplodere creando tutt'intorno deserti di morte. E grandi muraglie d'acqua colpire la terraferma e un altissimo e denso strato di cenere vulcanica oscurare il sole e venti potenti come uragani carichi di polvere, fumo e gas velenosi stravolgere l'atmosfera.

Scacciò dalla mente quelle immagini apocalittiche che si erano materializzate nella sua testa sulla scorta incalzante di quei suoi funesti pensieri ma ciò non lo fece sentire certo meglio.
Ripercorse tutta la sua vita fino a quel momento, ripensò alle tante cose fatte, a quanto aveva costruito e aiutato a costruire. Ai suoi figli.

Già, che ne sarebbe stato dei suoi figli?

Sentì dentro di sé ogni energia sgretolarsi come un biscotto tra le dita. Dopo tutta la fatica per tirarli su e per renderli autosufficienti…

Non che non gli avessero dato grattacapi. E che grattacapi…

E anche in quanto ad autosufficienza, a pensarci bene, non erano riusciti un granché. Se non era lì ogni minuto a controllarli con mille occhi finivano subito con il mettersi nei guai. E che guai…

E non sempre lui riusciva a trarli d'impaccio. Faceva del suo meglio, certo. Ma che diamine, aveva anche lui i suoi limiti.

Anche ora, come avrebbe potuto far qualcosa per salvarli? Era impossibile. In mezzo a quel cataclisma non ci sarebbe stato più alcun posto veramente sicuro.

Alzò gli occhi verso il grosso orologio che dominava la parete di fronte scandendo il trascorrere inesorabile del tempo. Le 11 in punto. Mancavano ancora pochi minuti soltanto e poi la luna avrebbe stretto il sole nel suo abbraccio mortale.

Decise di salire più in alto. Da lì avrebbe potuto seguire tutte le fasi dell'evento. Fino alla sua conclusione. Non restava altro da fare.

*

Ora la luna aveva già iniziato ad intaccare la sfera solare e sempre la superficie oscurata della stella andava aumentando.

Le 11 e 5 minuti. Il sole si era ridotto ad una lamina sottile, sempre più affilata mentre sulla terra l'aria si era fatta fredda e la luce spettrale.

Già gli uccelli avevano smesso di volare e non si udiva più nessun canto. I leprotti dei prati erano corsi a rifugiarsi tra la vegetazione, i cervi a nascondersi nel bosco.

Ecco uscire dai loro nidi le creature della notte. Pipistrelli alzarsi in volo, gufi e barbagianni posarsi sui fili elettrici tesi sopra le case, falene percorrere ubriache le loro orbite attorno ai lampioni che la calante intensità della luce, oramai del tutto smorzata, aveva fatto accendere.

Si alzò un vento gelido e sottile che penetrava fin nell'anima, acuendo quel senso di fine imminente che già si era impossessato delle menti.

Le 11 e 10. Ora mancava pochissimo. Ancora un piccolo scatto e la luna avrebbe ingoiato anche l'ultimo barlume rimasto. E sarebbe stato il buio. Totale.

Una frazione di secondo e l'occhio di luce scomparve, mentre lungo il perimetro del satellite un sinistro diadema luminoso ne incoronava il volto annerito.

Lunghissimi, interminabili secondi di silenzio perfetto. Non un verso, non un suono, non una parola. Tutto era immobile.

Poi…

Poi come era cominciato, lentamente, inesorabilmente, la luce si aprì un varco e dalla parte opposta da dove si era spento l'ultimo raggio di sole, un nuovo guizzo apparve.

Piano si formò uno spicchio i cui estremi andavano allontanandosi con il passare dei minuti fino ad aprirsi in un ampio sorriso. L'inchiostro che poco prima aveva dilagato tingendo di nero la superficie dell'astro si ritirava. Tornava la luce.

Gli uccelli ripresero a volare mentre il loro canto tornò a riempire l'atmosfera. I leprotti dei prati abbandonarono i loro rifugi tra la vegetazione, i cervi uscirono dalla boscaglia. Le creature della notte tornarono ai loro nidi. I pipistrelli rientrarono nelle grotte, i gufi e i barbagianni lasciarono i fili elettrici tesi sopra le case, le falene interruppero le loro orbite attorno ai lampioni che il ritorno della luce, che oramai aveva nuovamente invaso la terra, aveva fatto spegnere.

Il vento gelido e sottile si placò.

Guardò giù. Tutto era calmo come nei minuti precedenti l'eclisse. Nessuna massa dei ghiacci accumulata al Polo Sud era scivolata verso l'equatore con travolgente rapidità e le forze della natura avevano mantenuto l'antico equilibrio. Nessun vulcano era entrato in eruzione, nessun'onda gigantesca si era abbattuta sui continenti, nessun uragano di incredibile potenza aveva spazzato il pianeta. Le centrali nucleari erano intatte e anche il deserto era più vivo che mai. Nessuno strato di cenere vulcanica oscurava il sole e non c'era traccia neppure dei ventilati uragani carichi di polvere, fumo e gas velenosi che avrebbero dovuto stravolgere l'atmosfera. I mari erano calmi, le montagne immote.

Tutto perfettamente sotto controllo.

Grazie al Cielo era tutto a posto.

Dio tirò un sospiro di sollievo.

Anche per quella volta era andata bene. Scese dalla nuvola sulla quale era salito per osservare l'eclisse e andò a prepararsi per ricevere le preghiere di riconoscenza che gli sarebbero presto giunte per aver salvato la terra e a smistare i voti per grazia ricevuta e le offerte che gli uomini nel frattempo gli avevano tributato per il timore della fine imminente.

Sedette alla sua scrivania e si mise di buona lena.

Lo aspettava un duro lavoro.

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mercoledì 6 febbraio 2008

Una Vita che sono Due - IV

La donna è ancora lì, seduta di fronte a me, nella stessa posizione
“Tutto bene?” mi chiede
“Si, tutto bene. Ci sono riuscita. Quanto tempo è trascorso? ”
“Quasi cinque minuti. Era un incubo vero?”
“Eh, insomma. Ma non si preoccupi, per me è abbastanza normale”.
Sembra non mi ascolti più. Sta armeggiando dentro una borsa e, come per magia, ne tira fuori un thermos e due tazze. Le riempie, me ne porge una. Forse è tè, forse una tisana o non so cosa, l’odore comunque è buonissimo. Restiamo qualche minuto, o forse ore, in silenzio a sorseggiare la nostra bevanda calda.
E’ lei che parla per prima:
“Le va di raccontarmi?”
“Si”, rispondo “…certo. Non so bene se era proprio un sogno o qualcosa che mi è accaduto davvero, comunque…”

Quando finisco il mio racconto, dalla chiesa arriva il suono delle campane: dodici rintocchi.
“E’ già mezzogiorno”.
“Gia, e io devo andare a casa. Peccato, mi sarebbe piaciuto trattenermi almeno per un altro sogno”.
“Che problema c’è, prenda ciò che vuole, lo porti a casa e ci vediamo domenica prossima.
“Dice sul serio, posso? “
“Certo che può”
Affondo le mani nella cassapanca e tiro fuori alcuni oggetti, a caso. La donna li sistema in una scatolina di cartone: “Ecco fatto”.
Ci salutiamo, ripercorro velocemente la piazza.
Il ragazzo dei cestini e il suo amico stanno chiacchierando con due ragazze. Mi vede, mi fa un cenno con la testa e gli scappa anche un occhiolino. Sorrido a mezze labbra, abbasso la testa e allungo il passo.

Quando rientro a casa mi domando perché mai non sono rimasta fuori. Mi racconto un po’ di balle, la verità è che avevo voglia di tana.
Rovescio la scatolina sul tavolo della cucina, guardo gli oggetti sparpagliati, ne prendo in mano uno. E’ una foglia secca…



La foglia


“Dove sono, come sono arrivata in questo posto.
Sono già stata qui...ma quando?”

Un vialetto alberato, le foglie cadute formano un tappeto soffice, la luce sembra quella dei cieli dipinti nelle chiese.
Sto camminando ad occhi chiusi ma ugualmente riesco a vedere ciò che mi circonda, sento il profumo degli alberi, percepisco la loro voce, il calore del sole scalda la pelle del viso
Procedo a passo lentissimo. O forse sono ferma... Mi siedo, anzi, vedo il mio corpo che si siede su una pietra ai bordi della strada. Da quella posizione scorgo ciò che prima mi era sfuggito: nascosta dai rovi, l’ingresso di una grotta scavata nella parete della collinetta
Non l’ ho mai vista ma è come se la conoscessi bene. Forse sono passata di qui in sogno. Oppure… un dejà vu ma certo! Ecco, tra venti secondi mi alzerò, toglierò una foglia dalla punta della scarpa, riprenderò a camminare, arriverò fino all’ingresso della grotta e...

“... Adesso basta! Non vi vedo ma sento benissimo la vostra presenza. Chi siete? Perché mi seguite? Non potete, questo è il mio sogno, andatevene!
No. Aspettate, non volevo essere scortese. Seguitemi, se volete, ma sappiate che non potrete più tornare indietro: resterete, come me, prigioniero del ricordo di questo incanto e passerete di qui ogni giorno, tutti i giorni, per l’eternità...”


Contemporaneamente…

Il movimento del mare annuncia una tempesta. Il vento che adesso sta dolcemente spazzando via le foglie dalle strade del borgo tra breve diventerà una furia... è sempre così
Un vecchio fuma il suo sigaro, seduto ad un tavolino nell'angolo più nascosto del bar
La testa dritta, la mano sinistra ben serrata sul pomello del bastone, lo sguardo perso nel vuoto, al di là della linea che separa il mare dal cielo
Davanti ai suoi occhi scorrono immagini che arrivano da molto lontano:

Un vialetto di campagna,
il profumo dell’erba bagnata,
la voce degli alberi , il sole sul volto.
Una giovane donna è seduta su una pietra
ai bordi della strada.
E’ assorta, sta pensando chissà a che cosa.
Guarda di fronte a sé, si alza, toglie una foglia
dalla scarpa, si avvia verso l’ingresso di una grotta.

All’improvviso si volta, gli dice qualcosa, poi riprende a camminare.

Lui la segue…

La tempesta è arrivata ma il vecchio resta lì, fermo. Non sente e non vede più nulla se non le immagini che gli attraversano la mente e che hanno riempito la sua vita ogni giorno, tutti i giorni: Il ricordo del profumo di primavera e di un vialetto alberato che in un tempo molto lontano ha percorso. E quella grotta, dove lei sparì per non tornare mai più.

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giovedì 27 dicembre 2007

Consigli per il Natale: Mi raccomando: Tutti vestiti bene.



Anche quest‘anno il Natale è riuscito a prendermi rincorrendomi per i centri commerciali e fra le luminarie del centro. Centri e centro! Coincidenza?
Anche quest’anno tutti a benedirsi : “Se non ci vediamo più ti faccio gli auguri, e alla tua famiglia”, poi ci si continua a vedere e ad ogni volta “Se non ci vediamo…”.
I bimbi invece parlano dei regali che sicuramente Babbo Natale gli porta, per non sbagliarsi scrivono l’elenco di questi in ordine di importanza, forniscono una copia a mamma, una a papà, nonni, zii e chiunque possa avere a che fare con loro.
Me ne è capitato uno con indicati anche i prezzi, come per le liste nozze.
Infine, come ogni anno, negli ultimissimi giorni mi sono mosso anch’io per quei regali che è bello fare, che è giusto fare, quasi necessario.
Qualcosa di carino, utile e ad una cifra ragionevole: facile vero?

Fra questi anche l’autoregalo, e come spesso capita: un libro. Quale?
Quelli da leggere che già possiedi, non valgono.
Quelli già letti e che sai essere belli, ancor meno.
Passi il tuo tempo in librerie zeppe di gente e libri, ma l’ispirazione non arriva e allora ascolti un vecchio consiglio che da mesi rimane pendente: Mi raccomando: Tutti vestiti bene: David Sedaris: Oscar Mondatori.
La vigilia è dedicata ad albero e presepe: finché non è mezzanotte si è sempre in tempo.
E’ Natale.
Fino a mezzogiorno si aiuta in cucina, poi a tavola con una quantità elevata di cibo, vino e parenti.
Il pomeriggio, invece, è dedicato alla lettura, seguo il consiglio di chi scrive, ti insegna a scrivere e ti dice che leggere: non si può chiedere di meglio.
Il libro ha un giusto numero di pagine e lo tieni facile in mano, tanto che con l’altra riesci a rispondere ai vari sms di auguri che arrivano e che di anno in anno, giocando al rialzo, si fanno sempre più lunghi e articolati.
Passa il Natale, e passa anche questo libro… questo libro... deludente.
Autobiografico, fatto di aneddoti che seguono una certa logica fino solo a metà volume, poi fanno quello che vogliono. Sono il primo a dire che la trama non è importante, anzi, ma se la togli, bisogna metterci dell’altro, un’invenzione, lo stile tuo, qualcosa per bilanciare?
L’io narrante è un ragazzo gay nato in una famiglia strana nel mezzo di un paese strano: l’America. Se gli americani in sé non li si capisce bene, anche gli autori loro connazionali non è facile prendergli le misure, come per gli orientali, giapponesi in testa. Eppure per un verso o per l’altro ci affascinano, e molto. Io degli americani, gli autori intendo, mi piace come riescono spesso a descrivere misere vite di povertà e stenti con la leggerezza e il disilluso ottimismo che ad un europeo sono preclusi. Gli esempi sono tanti e famosi.
Queste storie deprimenti, basta un nulla e riescono a far sorridere, ma soprattutto insegnano a scrollare le spalle invece di piegarle. Sono storie che finiscono bene, o male, o così così, ma non è questo che importa, non ho ancora individuato cosa esattamene è importante, però capisco che deve esserci un qualcosa che lo sia.
Lo stesso sconclusionato Sedaris (emule?) ironico quanto non basta, architetta gli aneddoti della sua vita suggerendoti di cercare il perché le cose accadono. Se hai capito questo dai grandi scrittori americani, perché non dovresti arrivarci leggendo anche di questo ragazzo gay che, se fosse stato etero, la storia non ci avrebbe guadagnato né perso?
Il meccanismo è lo stesso, mezzo accennato, uno sforzo e ce la fai.
Sarà, ma per gli altri questo gioco mi veniva quasi spontaneo, mentre per Sedaris… non ci ho voglia!

Buon Natale a tutti.

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domenica 2 dicembre 2007

I Ciechi - VIII

[Autrice: Sonia]


I - II - III - IV - V - VI - VII - VIII


Il Libro era la sola cosa razionale e tangibile in quel contesto.
Spesso mi si confondevano le idee, ultimamente mi succedeva un po’ troppo spesso. E poi, in questo mondo parallelo che era la città dei sogni non raggiunti, ormai il rumore della vita mi aveva costretto in comportamenti non edificanti… tutte quelle stronzate con quei disperati delinquenti come me che facevano assurdità parlando a vanvera. E le lenti bianche... Ad un certo punto a forza di tenerle mi dimenticavo, mi pizzicavano gli occhi, vedevo opacizzato. Mi spaventavo come un bambino.

Certo, quasi quasi era meglio vedere col filtro del vetro satinato piuttosto che guardare a fuoco questo mondo corrosivo, appiccicoso, deforme. Qui, tra l’alcool e il resto, un resto eccessivo, la realtà e il sogno si confondevano, gli incubi si affacciavano diventando dialoganti, trovando la propria strada, vestivano i panni dei miei fantasmi del passato e i travestimenti del presente. Che banda di disperati deliranti… povera Denise, anche lei come se n’era andata, in tutto quel trucidume, incapace di reagire, lei che amava tanto l’arte, la letteratura, il cinema e la musica…
Camminavo a fatica con la mente a pallini, le vista a macchie, il rimbombo del vicolo e la puzza del cassonetto addosso. Tastavo continuamente la tasca, era lì con me, quel libro. Mi aveva seguito sempre, mi aveva amato poco ma insegnato tanto. O forse nulla, dato il mio stato. Si era scolorito ed ingiallito come la mia vita. Il titolo, enigmatico… non alludeva a quello che la logica faceva supporre. Parlava di natura, minerali e rocce, fauna e flora. I Ciechi erano dei particolari tipi di cristalli traslucidi simili a lenti opaline attraverso le quali si poteva vedere il mondo come in un sogno. Conteneva affascinanti tavole a colori che avevano fatto brillare i miei occhi di bambino. Ora erano stinte, le rocce frantumate, i petali graffiati, le scritte a metà.
E quella dedica, la grafia tremolante e obliqua della Nonna Amalia… cristallo, cuore che arde…sfera di luce…che illusione! Avrebbe voluto un nipote tutto perbenino e buono, soprattutto un bravo cristiano con le mani giunte, gli occhi al cielo e la riga da una parte. La fede, La luce, il cuore che arde….. Si era ritrovata con un somaro agitato e ribelle con le ginocchia sbucciate e i capelli a serpente che, ad una età indegna e non avendo combinato niente di sensato, beveva come una spugna e si faceva di tutto, si infilava le lenti a contatto accompagnandosi ad un consesso di altri disgraziati cerebrolesi tali a lui per poi farsi sgridare come un idiota dal Trucido in persona, manco fosse un istitutore... L’unica cosa era sperare che la Nonna Amalia non potesse mai vedermi dall’Aldilà e quindi niente Aldilà, per favore.. Altro che tavole a colori! Qui era tutto in bianco e nero, anzi di quel grigino topo-morto che fa ancora più schifo. Povera Denise..
Nella libreria I Ciechi stava al contrario per scaramanzia, per sapere sempre dov’era e nell’illusione che l’averlo messo sotto-sopra potesse raddrizzare la mia vita. A volte, quando avevo superato il limite, perso l’illusione di ritrovare me stesso e di capire com’era andata con Denise e i suoi occhi perduti per sempre, vedevo lassù in alto la Nonna Amalia che mi sorrideva con in mano il cristallo della salvezza, un cuore che ardeva in petto tutto trafitto di frecce come quello dei santini, e una luce ipnotizzante tutto intorno.
Ma durava poco, la Nonna era incazzata nera e mi mandava a quel paese in diretta, tutto ciò reggendo in mano fieramente il cuore, il cristallo e la fiamma.
E allora tutta quella storia, sogno e realtà, inseguimenti, specchi, messe nere e occhi bianchi mi sembravano un gioco banale, una fuga dalla vita di tutti i giorni, senza Denise e senza un senso.
In quel preciso momento di sanità mentale temporanea, tanto valeva ritornare a casa, riporre I Ciechi al loro posto, magari per il verso giusto non si sa mai nella vita….magari dopo essersi fatti un bel bicchierino che schiarisce per bene le idee……magari.


FINE

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